Da psichiatra a medico generalista in un reparto COVID-19

Il dottor Gerardo Di Carlo, Dirigente Medico presso la Struttura Complessa di Psichiatria dell’AUSL della Valle d’Aosta, ha prestato il proprio servizio come medico generalista presso i reparti COVID-19 dell’Ospedale “Umberto Parini” di Aosta ad aprile e maggio 2020.

Nell’intervista che segue ripercorre gli step più importanti di questa esperienza.

Come è stato per lei, in quanto psichiatra, operare come medico generalista in un reparto COVID-19? Quali sono state le principali difficoltà incontrate?

Passare dal servizio in SPDC ad un reparto per malati infetti ha comportato una radicale modifica della mia prassi clinica, per es. a causa della tipologia di pazienti, che erano molto diversi per età e spesso con multiple comorbidità (cardiologiche, oncologiche, metaboliche etc.). Mi sono trovato a gestire in toto dal punto di vista internistico malati che quasi mai, o solo molto raramente, accedono ad un reparto di Psichiatria. A ciò si aggiungeva la difficile gestione dell’infezione e delle sue gravi conseguenze respiratorie, con le molteplici misure e terapie adottate. Infine, una terza difficoltà è consistita nelle condizioni in cui tutto il personale sanitario (medici, infermieri, OSS, fisioterapisti etc.) si trovava ad operare, dovute sia all’utilizzo dei DPI che alle particolari attenzioni poste durante lo svolgimento dell’attività clinica e nella svestizione, fino ai disagi per l'impossibilità o rarità di pause. In sintesi ho dovuto rimodulare il mio sguardo da psichiatra, ponendo attenzione e focalizzandomi più del solito su aspetti in senso lato “internistici”. Benché sin dall’inizio della diffusione del virus in Italia abbia cominciato a studiare la letteratura scientifica in merito, ho dovuto non solo richiamare alla mente e ristudiare nozioni perdute da anni, ma impararne ex novo di nuove che mai pensavo mi sarebbero servite (utilizzo degli antivirali, utilizzo di tutti i dispositivi per l’ossigenoterapia e le NIV, effettuare e saper interpretare EGA arteriose, saper montare un casco CPAP etc.).

Passare dal servizio in SPDC ad un reparto per malati infetti ha comportato una radicale modifica della mia prassi clinica

Quanto, invece, della sua professione da psichiatra ha avuto modo di mettere in atto? E come tale ruolo si integrava all’interno del team multidisciplinare?

Ho fatto parte di una équipe medica composta dalle più disparate professionalità (dal cardiologo all’oncologo al chirurgo, solo per fare tre esempi), in cui ero l’unico psichiatra. Ciò ha comportato che in genere, a latere della mia attività clinica, io effettuassi le consulenze in altri reparti Covid o che passassi ai colleghi quel che della letteratura psichiatrica poteva essere loro utile. Naturalmente con i pazienti che seguivo non ho mai perso la mia abituale attitudine all’osservazione e registrazione dei fenomeni psichici e questo si è riverberato sia sulla relazione che si instaurava con loro, sia sulla gestione delle terapie psicofarmacologiche che sulle mie diarie cliniche (una collega scherzando mi ha detto che nel nostro reparto tutti i pazienti avevano quotidiane consulenze psichiatriche!).

 

Come descriverebbe l’impatto della pandemia sulla salute mentale di pazienti COVID-19 ed operatori sanitari impegnati in prima linea nella gestione di questa emergenza?

La condizione del paziente COVID-19+ ospedalizzato era già di per sé terribile da sopportare, sia per il terrore della morte, sia per l’angosciosa sensazione legata alla dispnea o ai presidi utilizzati per l’ossigenazione, sia per il confinamento in una stanza in cui non poteva ricevere visite dai propri cari e da cui non poteva mai uscire. La visita medica del mattino, le pratiche infermieristiche o le sedute di fisioterapia costituivano i momenti in cui il paziente poteva comunicare con gli operatori, porci domande, esporci le sue paure, confrontarsi con noi. Tutti noi medici e infermieri abbiamo cercato di mantenere un frequente contatto telefonico con i familiari dei pazienti e di fare in modo che essi potessero comunicare con loro, anche con videochiamate (sforzo rivolto soprattutto ai pazienti più anziani, meno avvezzi alle nuove tecnologie). Non era infrequente incontrare pazienti che presentavano quadri depressivi o ansiosi reattivi oppure sintomi post-traumatici (in special modo quelli che erano passati anche dalla Rianimazione) fino al delirium, oltre chiaramente a pazienti con anamnesi psichiatrica e peggioramento delle condizioni psichiche in seguito all’ospedalizzazione e alle terapie assunte.

Non era infrequente incontrare pazienti che presentavano quadri depressivi o ansiosi reattivi oppure sintomi post-traumatici fino al delirium

La gestione clinica delle condizioni reattive è stata essenzialmente psicofarmacologica quando necessario e, nei limiti del possibile, di supporto psicologico; più complessa è stata quella del delirium poiché spesso l’eziologia era mista (condizioni mediche pre-esistenti, ipossia, isolamento, dolore, terapie multiple, effetti dell’infezione etc.), con le conseguenti difficoltà di rimozione delle cause scatenanti e di scelta della terapia per la possibilità di interazioni. Le condizioni di forte stress lavorativo in cui ha operato tutto il personale sanitario mi ha mostrato, una volta di più, l’abnegazione e resilienza di cui è capace; naturalmente tutto questo ha un costo ed è importante prevedere la possibilità di un adeguato riposo e di un supporto psicologico o di iniziative di sostegno anche nei mesi che verranno.

 

Una volta rientrato in SPDC quali cambiamenti ha dovuto affrontare in reparto? C’è stato un incremento degli accessi e se sì per quali disturbi?

Tornare in SPDC non ha comportato in alcun modo un alleggerimento della fatica, come d’altronde mi aspettavo. C’è stato, in relazione alla riapertura delle maglie del lockdown, un incremento degli accessi in urgenza e dei ricoveri (spesso per importanti quadri depressivi o tentativi di suicidio) sia per le conseguenze psicologiche della prolungata chiusura che per gli effetti della pandemia sulle condizioni personali, familiari, lavorative. Non va dimenticato che la chiusura degli ambulatori, del supporto territoriale e le restrizioni delle regole nelle Strutture Comunitarie ha avuto un impatto innegabile sullo scompenso di molti pazienti in carico, nonostante sia stato fatto un enorme sforzo di telemonitoraggio. In questo campo siamo all’inizio e solo il tempo ci mostrerà la portata degli effetti a lungo termine di quanto abbiamo vissuto.

C’è stato, in relazione alla riapertura delle maglie del lockdown, un incremento degli accessi in urgenza e dei ricoveri sia per le conseguenze psicologiche della prolungata chiusura che per gli effetti della pandemia sulle condizioni personali, familiari, lavorative

Che cosa si porta a casa da questa esperienza come persona e come professionista?

Senza dubbio un importante arricchimento professionale ed un accrescimento delle mie competenze e della capacità di gestire situazioni mediche complesse, che potrò proficuamente utilizzare con i miei pazienti. Voglio inoltre aggiungere che, nonostante le grandi difficoltà, il clima di scambio e collaborazione che si è creato tra medici ed infermieri così diversi per estrazione ed esperienza è stato una piacevole sorpresa. Sono soddisfatto in quanto persona e in quanto medico di aver fatto la mia seppur piccola parte nell’enorme sforzo svolto dal Servizio Sanitario della Regione in cui vivo nel contrasto alla pandemia.

 

Dott. Gerardo Di Carlo  

AUSL della Valle d’Aosta