Il campo minato della marijuana: anche l’impiego medico presenta complicazioni

La pianta della marijuana produce due cannabinoidi importanti. Molti analoghi sintetici sono impiegati negli studi clinici e in strada viene venduta un’ampia e confusa gamma di sostanze semi-illecite. Data la scarsa evidenza in generale, l’uso a scopo medico della marijuana è un argomento dibattuto. Allo stesso tempo, i cambiamenti nella quantità e nel rapporto dei fitocannabinoidi potrebbero aumentare i danni legati al suo impiego a scopo ricreativo.

Tra i cannabinoidi derivanti dalla marijuana, i più importanti sono il delta 9-tetraidrocannabinolo (THC) e il cannabidiolo. Secondo quanto sostiene Donald Goff (Nathan Kline Institute, New York University School of Medicine, USA), in risposta alla richiesta dei consumatori, la coltivazione selettiva delle piante ha portato ad un aumento del contenuto in THC, sia in termini assoluti che in rapporto al cannabidiolo.

Questi sviluppi potrebbero contribuire all’aumento dei danni associati all’uso della droga: la cannabis di oggi non è la stessa di 20 anni fa. 

La cannabis di oggi non è la stessa di 20 anni fa.

Abbiamo anche assistito allo sviluppo di cannabinoidi sintetici con elevata affinità per il recettore 1 della cannabis (CB-1) che vengono tipicamente nebulizzati su materiale a base di erbe e poi venduti per strada come "Spice" e "K2". Rispetto ai cannabinoidi estratti dalla pianta, i composti CB-1 sintetici agiscono come agonisti totali anzichè parziali ed hanno emivite lunghe, provocando una rapida desensibilizzazione ed esposizioni più lunghe alla droga.

L'abuso di cannabinoidi sintetici sta accrescendo fortemente il numero di persone che si presentano con sintomi di tossicità, presso le sedi di Pronto Soccorso delle principali città degli Stati Uniti. Il Prof. Goff ha citato i dati di 20-30 casi al giorno presso un ospedale di New York.

Come si chiarirà successivamente, questo non esclude la presenza di un potenziale terapeutico da parte dei cannabinoidi sintetici. Tuttavia, le evidenze sul loro impiego sono deboli, ad eccezione delle indicazioni di spasticità legata alla sclerosi multipla e al dolore neuropatico.

Cannabis e psicosi
L’associazione tra impiego della cannabis e psicosi è evidente. Qualsiasi storia di utilizzo di cannabis aumenta del 40% il rischio di soffrire di schizofrenia nel corso della vita, rischio duplicato in caso di un forte consumo. In soggetti sani, il THC produce sintomi che mimano sia i sintomi positivi che negativi della schizofrenia. In pazienti affetti da schizofrenia, l’uso continuo della cannabis peggiora il decorso della malattia mentre l’astinenza ne migliora gli outcome  funzionali. Tuttavia, mentre il THC aumenta i sintomi psicotici e di ansia in soggetti sani, il cannabidiolo non lo fa. Il cannabidiolo, infatti, aumenta i livelli dell’anandamide, cannabinoide endogeno, ed esistono evidenze sulla sua possibile azione  come antipsicotico endogeno, riducendo gli effetti di THC sul recettore CB-1. I livelli di anandamide nel sistema nervoso centrale (CNS) aumentano nei primi episodi psicotici non trattati farmacologicamente ed elevate concentrazioni di questa molecola sono associate ad una riduzione della gravità dei sintomi – tranne che nei grandi consumatori di cannabis. 

L’anandamide potrebbe essere un antipsicotico endogeno? 

Tutto in equilibrio
Anche se i dati sono preliminari, i risultati promettenti di due studi clinici randomizzati controllati suggeriscono che il cannabidiolo potrebbe migliorare i sintomi della psicosi in pazienti già trattati con una terapia antipsicotica standard. Sono attesi, però, i risultati di altri due studi in corso. Secondo il Professor Goff l’ipotesi di ottenere un vantaggio clinico dai sistemi di cannabinoidi endogeni, che sembrano progettati per mantenere l’equilibrio a livello cerebrale e modulare la risposta allo stress, potrebbe essere interessante.

L’uso leggero di marijuana potrebbe avere conseguenze
Utilizzare una o due volte la cannabis può influenzare la struttura cerebrale degli adolescenti in fase di crescita? Un’idea provocatoria, ma che Hugh Garavan (University of Vermont, Burlington, USA) ritiene plausibile. 

Prima di tutto, il numero di recettori CB-1 aumenta sostanzialmente durante la pubertà. In secondo luogo, sappiamo dai modelli animali nei ratti che una sola esposizione a THC distrugge la plasticità sinaptica. Ma nuovi elementi arrivano da uno studio di neuroimaging che ha confrontato 46 adolescenti consumatori di cannabis una o due volte al giorno con 46 controlli che non l’hanno mai utilizzata. I due gruppi presentavano differenze significative del volume di sostanza grigia nelle aree cerebrali ricche di recettori CB-1.  Lo studio presenta di certo molte limitazioni. Il numero di soggetti inclusi è relativamente piccolo e nonostante i tentativi fatti per il controllo di fattori correlati quali l’uso di alcol e nicotina, questi non hanno portato ad un pieno successo. Infine, non essendo uno studio longitudinale, non sappiamo se le differenze osservate nella struttura cerebrale precedano o seguano l’esposizione alla cannabis.   

E riguardo l’uso a scopo medico?
Deepak Cyril D’Souza (Yale University School of Medicine, West Haven, Connecticut, USA) è scettico riguardo le evidenze a supporto dell’impiego della cannabis e dei cannabinoidi in ambito medico. Nonostante alcuni suggerimenti sul miglioramento del sonno e sulla riduzione degli incubi, un lavoro in fase di pubblicazione ha mostrato  che il livello complessivo delle evidenze sui benefici della cannabis nei disturbi post-traumatici da stress è basso. Ciò vale anche per la sindrome di Tourette, nonostante ci siano alcuni dati sulla riduzione dei tic. I risultati più forti si osservano nella sclerosi multipla, specialmente in relazione alla spasticità, e nel dolore neuropatico. Tuttavia, anche nel dolore neuropatico, gli studi presentano alcuni problemi metodologici. Tali problemi comprendono gli effetti dovuti ad una elevata aspettativa, la difficoltà nella conduzione in cieco e il fallimento nel dimostrare effetti su misure oggettive come la richiesta di oppiacei.

Il Prof. D’Souza considera l’evidenza di efficacia sulla nausea e sul vomito indotti dai chemioterapici come moderata, così anche per la cachessia indotta da HIV/AIDS. 

Una delle difficoltà è rappresentata da un rapido sviluppo della tolleranza. L’esposizione ai cannabinoidi genera un’immediata riduzione della disponibilità di recettori CB-1. Tale fenomeno resta evidente per diversi giorni. Nonostante il recupero della risposta ai cannabinoidi avvenga rapidamente, l’induzione iniziale della tolleranza solleva dubbi sulla possibilità di mantenere l’efficacia terapeutica durante un trattamento a lungo termine senza la necessità di aumentare la dose.  

Argomento di discussione è stato rappresentato dalla necessità o meno di mantenere il requisito per due studi clinici positivi randomizzati controllati prima di accettare una nuova indicazione per un trattamento. Anche se qualcuno potrebbe, in alcuni casi, voler abbreviare questo iter, i rischi associati all'uso di cannabinoidi dovrebbero impedirlo. Un intervento dal pubblico ha dato ragione a questo dubbio: l’uso a scopo medico rientra tra le motivazioni a favore della depenalizzazione.